Anatomia del silenzio emotivo

E' veramente strano il modo in cui le emozioni si cristallizzano nel corpo. Crescere nelle valli del Nord ha significato per me respirare quell'aria rarefatta dove i sentimenti vengono considerati un lusso superfluo, quasi una debolezza strutturale dell'essere. Una famiglia dove l'espressione emotiva era moneta fuori corso. Ci incontravamo per le feste comandate e qualche occasione mondana, mantenendo sempre quella distanza di sicurezza che impedisce di contaminarsi con l'affetto altrui.
A dieci anni, al funerale di mio padre, non piansi. Gli occhi asciutti non tradivano alcuna emozione. Un piccolo soldatino composto che faceva il suo dovere. Gli adulti attorno a me lo interpretarono come l'inconsapevolezza tipica dell'infanzia di fronte alla morte. Non potevano sapere che stavo già applicando con diligenza la lezione più importante appresa fino a quel momento: chi mostra ciò che sente diventa vulnerabile, attaccabile. "Mai rivelare al nemico quello che provi" era diventato il mio mantra invisibile.
La matematica impossibile dei sentimenti trattenuti
Passarono trentadue anni. Altri funerali, altre occasioni in cui sarebbe stato naturale cedere alle emozioni. Nulla. Il meccanismo ormai perfezionato funzionava con l'efficienza di un orologio svizzero. Trattenere, nascondere, controllare. Così quando mia madre se ne andò, la scena si ripeté con identica precisione. Nessuna lacrima, niente singhiozzi. Solo un silenzio composto, una dignità fatta di assenze.
Mi sono spesso chiesto dove andassero a finire tutti quei sentimenti non espressi. Esiste forse un magazzino biologico dove le emozioni represse vengono catalogate e archiviate? O magari si trasformano in qualcos'altro, come l'acqua che diventa vapore invisibile ma continua comunque a esistere nell'aria che respiriamo? La termodinamica emotiva segue regole misteriose. Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si trasforma, anche ciò che decidiamo di non sentire.
La sedimentazione dell'inespresso
Mentre osservavo altri uomini abbracciare i propri figli, baciare le proprie mogli, stringere amici in momenti di gioia o dolore, sentivo una curiosa sensazione di estraneità. Come un antropologo che studia costumi di una tribù sconosciuta. Intellettualmente comprendevo quei gesti, ma emotivamente appartenevano a un linguaggio che non mi era stato insegnato. Non possedevo il vocabolario necessario per tradurli nella mia esperienza.
Eppure quella capacità di connessione sembrava così naturale negli altri. Mi ritrovavo a studiare i loro movimenti, le espressioni, i toni di voce. C'era una spontaneità in quei gesti che mi affascinava proprio perché mi era preclusa. La naturalezza con cui un padre accarezzava i capelli del figlio, la semplicità di un abbraccio tra amici, l'immediatezza di una lacrima che scende senza chiedere permesso.
L'archeologia personale delle abitudini emotive
L'illuminazione non arrivò come una rivelazione improvvisa, ma piuttosto come il lento emergere di un relitto dal fondo del mare. Strato dopo strato, cominciavo a intravedere i contorni di qualcosa di sommerso da tempo. Quel controllo che consideravo la mia forza stava in realtà limitando la mia capacità di esistere pienamente nel mondo. Non era protezione, ma privazione.
Nel panorama cerebrale, i sentimenti non sono optional ma elementi costitutivi della cognizione. Antonio Damasio lo aveva spiegato bene: le emozioni non sono lussi o disturbi della razionalità, ma componenti essenziali dei meccanismi di regolazione con cui siamo stati dotati per sopravvivere. Reprimerle sistematicamente significa alterare l'intero sistema operativo con cui interagiamo con la realtà.
La geografia mutevole del contatto umano
Il cambiamento avvenne quasi per caso. Un amico attraversava un momento difficile e, senza pensarci, mi ritrovai ad abbracciarlo. Un gesto improvvisato, non programmato. E in quel momento sentii qualcosa di strano, come un piccolo terremoto interiore che spostava impercettibilmente le placche tettoniche della mia emotività. Quel semplice contatto aveva aperto una crepa nel muro che avevo costruito con tanta cura.
Da allora, ho iniziato a esplorare questo territorio sconosciuto con la curiosità di un viaggiatore in terre straniere. Ogni abbraccio è diventato un piccolo esperimento esistenziale. Ogni stretta di mano un'occasione per sentire la consistenza dell'altro. Non era più questione di compensare ossessivamente un'assenza passata, ma di abitare finalmente uno spazio emotivo che mi ero proibito di frequentare.
L'ironia delle cute aggression
E poi è accaduto qualcosa di bizzarro, un contrappasso emotivo che mi ha colto impreparato. Io, che per anni ho razionato il contatto fisico come un bene di lusso, mi ritrovo ora con una sorta di fame tattile incontrollabile verso alcune persone. Gli psicologi lo chiamerebbero "cute aggression", quel paradossale impulso a stringere forte ciò che troviamo adorabile, fino quasi a divorarlo con l'affetto. È come se il pendolo emotivo, dopo essere rimasto immobile per decenni sul versante del distacco, si fosse messo da oscillare con violenza verso l'estremo opposto.
Mi sorprendo a non riuscire a lasciare in pace certe persone. Le abbraccio, le stringo, le tocco con una frequenza che a volte persino io trovo eccessiva. "Vieni qui che ti mangio", mi ritrovo a dire, come una di quelle zie invadenti che da bambino evitavo con cura strategica durante le riunioni familiari. C'è qualcosa di profondamente comico in questa metamorfosi affettiva. L'uomo di ghiaccio trasformato in un orso che dispensa abbracci con l'entusiasmo di un neofita che ha appena scoperto una nuova droga. La sobrietà emotiva di una vita abbandonata per una sorta di ubriachezza tattile che mi sorprende per primo.
La lenta rieducazione dell'istinto
Certo, ci sono ancora momenti di imbarazzo, di goffaggine. Come quando si impara una nuova lingua in età adulta e ci si sente sempre un po' stranieri, mai completamente a proprio agio. Le emozioni hanno una loro grammatica che si apprende meglio nell'infanzia. Ma anche da adulti è possibile costruire un lessico personale, più consapevole forse, meno spontaneo certamente, ma comunque autentico.
Osservo nei miei gesti attuali l'eco di quelli che non ho potuto fare prima. Quando abbraccio qualcuno oggi, è come se stessi anche abbracciando quel bambino di dieci anni rimasto composto al funerale del padre. Quando permetto a una lacrima di scendere, sto anche piangendo per tutte quelle trattenute in passato. C'è qualcosa di profondamente liberatorio in questa tardiva riconciliazione con la propria vulnerabilità.
Le impronte digitali dell'anima
Mi chiedo spesso quanto di noi sia determinato da queste prime impronte emotive e quanto invece possiamo riscrivere attraverso la consapevolezza. Il cervello umano mantiene una straordinaria plasticità anche in età adulta. Le vecchie connessioni neurali possono essere indebolite, nuovi percorsi possono essere creati. Ma richiede tempo, pazienza, e soprattutto la volontà di abbandonare il familiare, per quanto disfunzionale possa essere.
La vera eredità che possiamo lasciare non è fatta di beni materiali ma di libertà emotive. Spezzare catene invisibili significa permettere alle generazioni future di crescere senza il peso di restrizioni arbitrarie. Significa dare loro il permesso di essere pienamente umani, con tutte le meravigliose imperfezioni che questo comporta. E si, in fondo, sono un tenerone.