Chimica dell'anima

Prendo Clonazepam e Paroxetina ogni giorno. La frase, così nuda e cruda, porta con sé un peso specifico notevole. C'è qualcosa di strano nel pronunciarla ad alta voce, come se stessi confessando una debolezza inconfessabile anziché descrivere una terapia. Curioso come non proveremmo lo stesso imbarazzo nel dire "prendo insulina per il diabete" o "assumo antipertensivi". Ma quando si tratta della chimica cerebrale, ecco che subentra questa peculiare reticenza, questo velo di pudore che avvolge l'ammissione.
La mia ansia non è particolarmente originale o creativa. Non ha caratteristiche che la rendano un caso di studio affascinante. È semplicemente pervasiva, costante, insidiosa nella sua banalità. Si manifesta come un ronzio di fondo che occasionalmente diventa sirena assordante. Mi accompagna al supermercato, si siede accanto a me alle riunioni, occupa il posto del passeggero quando guido. Una presenza invisibile agli altri ma concretissima nella mia percezione.
La geografia interiore del disagio
L'ansia ha una sua geografia precisa. La percepisco fisicamente come una tensione che parte dallo stomaco per poi irradiarsi verso il torace in una morsa invisibile. Ci sono giorni, prima che iniziassi la terapia, in cui questa sensazione era così intensa da farmi credere di avere problemi cardiaci. Ironico pensare a quante visite mediche ho fatto, quanti elettrocardiogrammi, per scoprire infine che il mio cuore funzionava perfettamente. Era la mente a generare quella tempesta biochimica che il corpo traduceva fedelmente in sintomi.
L'aspetto più subdolo dell'ansia è la sua capacità di mimetizzarsi, di nascondersi dietro ragionamenti apparentemente logici. "Sono preoccupato perché è ragionevole esserlo", mi ripetevo. "Chiunque nella mia situazione lo sarebbe". La razionalizzazione come strategia difensiva, per non ammettere che la reazione era sproporzionata rispetto allo stimolo. Come spiegare a chi non la vive che l'ansia non è semplicemente preoccupazione intensificata, ma una distorsione percettiva che altera il rapporto stesso con la realtà?
La decisione di attraversare quella porta
Ricordo con precisione fotografica il giorno in cui prenotai il primo appuntamento con lo psichiatra. Fu un pomeriggio di novembre, con quella luce obliqua e pallida che sembra già annunciare l'inverno. Seduto alla scrivania, con il telefono in mano, composi il numero e lo fissai per interminabili minuti prima di trovare il coraggio di premere il tasto verde. Qualcosa dentro di me percepiva quel gesto come una resa, un'ammissione di inadeguatezza. "Non sono capace di gestire la mia mente", sembrava implicare quella telefonata.
La sala d'attesa dello studio era sorprendentemente normale. Mi aspettavo qualcosa di clinico, freddo, istituzionale. Invece c'erano piante, riviste, colori caldi. E soprattutto c'erano altre persone. Persone come me, dall'aspetto assolutamente ordinario. Professionisti, studenti, genitori. Nessuno aveva l'aria di essere "pazzo" o "disturbato". Erano solo persone che avevano deciso di non voler più soffrire inutilmente.
La chimica come alleata
Quando lo specialista mi prescrisse il Clonazepam e la Paroxetina, provai sentimenti contrastanti. Da un lato, un certo sollievo nel sapere che esisteva un intervento concreto, dall'altro, la preoccupazione di diventare dipendente, di non essere più "me stesso". Mi ci è voluto tempo per comprendere che quei farmaci non alterano la personalità ma regolano un sistema biochimico sbilanciato. Come degli occhiali che non cambiano gli occhi ma correggono la visione.
La Paroxetina, un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina, agisce sul lungo periodo modificando gradualmente la chimica cerebrale. Il Clonazepam, invece, offre un sollievo più immediato nei momenti di crisi acuta. È interessante osservare come questa combinazione rispecchi due temporalità distinte del disagio: quella cronica, di fondo e quella acuta delle crisi. La farmacologia moderna ha compreso che l'ansia opera su questi due livelli e richiede pertanto un doppio intervento.
L'effetto sulla quotidianità
Il cambiamento non è stato immediato né drammatico. È avvenuto piuttosto come una lenta discesa della marea. Situazioni che prima mi sembravano insormontabili hanno iniziato a presentarsi nella loro effettiva dimensione. Fare la spesa, guidare nel traffico, partecipare a una riunione di lavoro. Gesti quotidiani che per molti sono automatici ma che per me rappresentavano piccole battaglie quotidiane.
C'è qualcosa di liberatorio nel rendersi conto che si può esistere senza quella tensione costante, senza quel rumore di fondo che inquina ogni esperienza. È come passare da un ascolto distorto a uno pulito, come quando da bambini pulivamo le testine del walkman con l'alcol e improvvisamente la musica acquistava una chiarezza cristallina. La differenza è sottile ma fondamentale.
La società e il pregiudizio invisibile
Mi sono spesso interrogato sul perché persista questo stigma attorno ai disturbi mentali e alla loro cura farmacologica. Forse è un retaggio di epoche in cui la psichiatria era effettivamente più brutale, meno scientifica. O forse è qualcosa di più profondo, legato alla nostra concezione dell'individualità e dell'autonomia. Ammettere di avere bisogno di aiuto per gestire la propria mente sembra minare l'idea stessa che abbiamo di noi come entità coese e autodeterminate.
Eppure, in un'epoca in cui misuriamo e ottimizziamo ogni aspetto della nostra vita, dal sonno all'alimentazione all'attività fisica, perché dovrebbe essere tabù ottimizzare anche il nostro equilibrio neurochimico? Perché possiamo parlare liberamente di integratori per migliorare le prestazioni fisiche, ma non di farmaci per migliorare la qualità della vita mentale?
Un nuovo vocabolario interiore
Uno degli effetti più sottili ma significativi della terapia farmacologica è stato l'acquisizione di un nuovo vocabolario interiore. Prima tendevo a identificarmi completamente con la mia ansia. Era parte di me, indistinguibile dal mio io. Con il tempo, ho imparato a osservarla con un certo distacco. "Ah, ecco l'ansia che si manifesta", posso ora dire a me stesso, anziché esserne completamente sopraffatto.
Questo distacco non è alienazione ma consapevolezza. È la capacità di riconoscere che i pensieri ansiosi sono eventi mentali, non verità assolute. Che la sensazione di catastrofe imminente è un segnale mal calibrato, non un'accurata previsione del futuro. I farmaci non hanno creato questa consapevolezza, ma hanno creato lo spazio perché potesse emergere.
La normalità riconquistata
Ciò che cerchiamo, in fondo, non è l'eccezionalità ma la normalità. La capacità di vivere senza che ogni momento sia appesantito da preoccupazioni eccessive, da paure irrazionali, da tensioni ingiustificate. La terapia farmacologica, quando appropriata, non serve a creare uno stato artificiale di euforia ma a restaurare un equilibrio compromesso.
È una forma di normalità che va riconquistata giorno dopo giorno, con pazienza e perseveranza. Con la consapevolezza che non si tratta di eliminare completamente l'ansia, emozione utile e necessaria nella giusta misura, ma di riportarla entro confini gestibili. Da tiranno a consigliere, da ostacolo a occasionale campanello d'allarme.
Se c'è un messaggio che vorrei trasmettere, è che non c'è vergogna nel cercare aiuto. Nel rivolgersi a uno specialista. Nell'assumere farmaci se necessario. La vera forza non sta nel sopportare inutilmente una sofferenza che può essere alleviata, ma nel fare tutto il possibile per vivere pienamente la propria vita. Anche se questo significa ammettere che, talvolta, il cervello ha bisogno di un piccolo aiuto chimico per funzionare al meglio.