Collego i puntini

by Rollo


Collego i puntini

L'aperitivo stava finendo quando mi hanno fatto quella domanda. Era un networking event come tanti altri, persone che si aggiravano con calici in mano e sorrisi professionali stampati in faccia. "E tu che lavoro fai?" La domanda più temuta dell'universo imprenditoriale. Quella che fa sudare freddo chiunque abbia un percorso non lineare. Ho posato il bicchiere e ho fatto quello che faccio sempre in questi casi. Ho detto la verità in modo enigmatico. "Io collego i puntini." Il silenzio che è seguito ha avuto la densità di un buco nero. Poi, inevitabilmente, è arrivata la seconda domanda. "Cioè?"

Trent'anni di carriera mi hanno insegnato che spiegare cosa faccio è più complicato che farlo davvero. Non posso dire "sono un idraulico" e vedere gli occhi della gente illuminarsi di comprensione immediata. Il mio lavoro non ha un nome preciso nel dizionario delle professioni. È una combinazione alchemica di esperienze accumulate in settori che normalmente non si parlano tra loro, una capacità di vedere pattern dove altri vedono caos, di trovare connessioni dove altri vedono solo coincidenze.

Ma andiamo con ordine. Quando dico "collego i puntini", non sto facendo il misterioso per vezzo. Sto descrivendo letteralmente quello che fa il mio cervello dopo tre decenni di salti mortali professionali. Dalla produzione musicale alla consulenza digitale nel cinema, dal business mentoring nelle palestre CrossFit all'analisi economica di startup improbabili. Ogni settore in cui ho messo piede ha lasciato un segno, un pezzo di puzzle che si è incastrato con tutti gli altri.

Il valore dell'esperienza frammentata

La maggior parte delle persone vede la mia carriera come una collezione di tentativi falliti. "Non ha mai trovato la sua strada", sussurrano. Invece è esattamente il contrario. Ho trovato la mia strada proprio perché ho esplorato tante strade diverse. Ogni esperienza apparentemente scollegata dalle altre si è rivelata un tassello fondamentale di un quadro più grande.

Quando lavoro con un imprenditore del fitness che vuole lanciare un'app, non gli parlo solo di business plan e strategie di marketing. Gli racconto di come ho visto fallire progetti simili nell'industria musicale per aver sottovalutato l'user experience. Gli spiego perché le dinamiche di engagement che funzionano nel cinema non si traducono automaticamente nel mondo del fitness. Gli mostro pattern che ha sotto il naso ma che non riesce a vedere perché è troppo dentro il suo settore.

Questo è il punto. Non è che io sappia tutto di tutto. È che ho imparato a riconoscere i meccanismi universali che governano qualsiasi business, qualsiasi progetto umano. Ho scoperto che le regole che fanno funzionare una produzione discografica sono sorprendentemente simili a quelle che determinano il successo di una palestra CrossFit. Cambiano gli strumenti, cambia il linguaggio, ma i principi fondamentali rimangono gli stessi.

La sindrome del traduttore universale

Mi sono reso conto di essere diventato una specie di traduttore universale. Quando un producer musicale mi racconta le sue sfide creative, riesco a tradurle in termini che un proprietario di palestra può capire immediatamente. Quando un imprenditore del fitness mi descrive i suoi problemi di retention, io vedo le stesse dinamiche che ho osservato nel mondo dell'entertainment.

È come se parlassi fluentemente diverse lingue professionali e il mio valore aggiunto fosse proprio nella capacità di fare da interprete tra mondi che si credono completamente diversi. Il cliente che vuole aprire una catena di gym non sa che il suo problema di scalabilità è identico a quello che affrontava quel regista indipendente di cinque anni fa. Ma io lo so. E riesco a tradurre le soluzioni da un contesto all'altro.

Questa capacità di traduzione nasce dalla consapevolezza che, sotto la superficie delle specificità tecniche, tutti i business affrontano le stesse sfide fondamentali. Come attrarre l'attenzione in un mercato saturo. Come costruire fiducia con persone che non ti conoscono. Come mantenere l'engagement nel tempo. Come scalare senza perdere l'anima. Come innovare senza alienare la base esistente.

L'arte di vedere l'invisibile

Ma collegare i puntini non significa solo trasferire soluzioni da un settore all'altro. Significa sviluppare una sensibilità particolare per quello che non viene detto, per quello che succede negli spazi bianchi tra le parole. Dopo trent'anni di conversazioni con imprenditori di ogni tipo, ho imparato a leggere tra le righe. Quando qualcuno mi dice "il problema è che non riusciamo a trovare clienti", spesso il vero problema è che non hanno capito chi vogliono davvero servire. Quando mi dicono "la concorrenza ci sta uccidendo", di solito il problema è che si sono messi a competere sulla commodity sbagliata.

I puntini che collego non sono solo esperienze passate e situazioni presenti. Sono anche le cose non dette, i presupposti nascosti, le contraddizioni inconsce. È il gap tra quello che la gente dice di volere e quello che i suoi comportamenti rivelano. È la distanza tra l'idea che hanno di sé e la realtà che proiettano.

Questo tipo di visione si sviluppa solo attraverso l'esposizione a contesti molto diversi. Se avessi passato trent'anni nello stesso settore, avrei sviluppato una competenza verticale incredibile, ma avrei perso la capacità di vedere i pattern trasversali. Sarei diventato un esperto, ma non un connettore.

Il paradosso della specializzazione moderna

Viviamo in un'epoca che predica la specializzazione estrema. "Trova la tua nicchia e diventa il migliore al mondo in quello." È un consiglio sensato per molti, ma pericoloso se applicato ciecamente. Il mondo cambia troppo velocemente perché la specializzazione verticale sia sempre la strategia vincente. I settori si ibridano, le tecnologie si contaminano, i comportamenti dei consumatori mutano in modo imprevedibile.

In questo scenario, chi sa collegare i puntini diventa prezioso quanto chi sa scavarli in profondità. Forse di più. Perché le innovazioni più interessanti nascono quasi sempre dall'incrocio tra discipline diverse. Netflix è nato dall'incontro tra tecnologia e entertainment. Spotify ha rivoluzionato la musica applicando logiche di software as a service. Tesla ha trasformato l'automotive pensando come una tech company.

Il mio valore non sta nella conoscenza approfondita di un singolo settore, ma nella capacità di vedere connessioni che sfuggono agli specialisti. È un tipo di intelligenza diversa, più orizzontale che verticale, più integrativa che analitica. Non sostituisce l'expertise settoriale, la complementa.

La fatica di spiegare l'inspiegabile

Eppure, rimane il problema di comunicare tutto questo. "Collego i puntini" è una formula che uso proprio perché cattura l'attenzione senza rivelare troppo. Crea curiosità invece di scatenare la noia delle spiegazioni tecniche. Ma poi arriva sempre il momento in cui devo andare più in dettaglio, e lì la cosa si complica.

Come spieghi a qualcuno che il tuo lavoro consiste nel vedere quello che lui non vede? Come fai capire che la tua competenza principale è riconoscere pattern che attraversano settori diversi? Come dimostri il valore di un'esperienza frammentata in un mondo che premia la coerenza curricolare?

La risposta che ho trovato dopo anni di tentativi è raccontare storie concrete. Invece di descrivere quello che faccio in astratto, racconto quello che è successo. Parlo del cliente della musica che aveva lo stesso identico problema del cliente del fitness, solo tradotto in linguaggi diversi. Descrivo le soluzioni che sono emerse dall'incrocio tra esperienze apparentemente scollegate. Mostro i risultati ottenuti proprio grazie a questa visione trasversale.

Il futuro appartiene ai connettori

Ma c'è una ragione più profonda per cui ho scelto di abbracciare completamente questa identità professionale ibrida. Credo che il futuro appartenga sempre di più a chi sa collegare i puntini. Il mondo sta diventando troppo complesso perché qualcuno possa dominarlo dall'interno di un solo settore. Le sfide più importanti richiedono approcci interdisciplinari. I problemi più interessanti nascono proprio negli spazi di confine tra discipline diverse.

Chi sa muoversi in questi spazi di confine, chi riesce a tradurre da un linguaggio all'altro, chi vede pattern trasversali, diventa un ponte prezioso in un mondo sempre più frammentato. Non è più sufficiente essere molto bravi in una cosa sola. Bisogna essere bravi a collegare cose diverse.

Quindi quando qualcuno mi chiede che lavoro faccio, continuerò a rispondere che collego i puntini. Non perché voglia fare il misterioso, ma perché è la descrizione più accurata di quello che faccio davvero. E se questo crea confusione o curiosità, ancora meglio. Significa che sto facendo bene il mio lavoro di connettore. Perché il primo puntino che collego è sempre quello tra la domanda che mi fanno e la risposta che non si aspettano.

E quando poi mi chiedono "cioè?", sorrido e comincio a raccontare. Perché quello è il momento in cui la magia della connessione inizia davvero.