Gli influencer non hanno inventato niente

by Rollo


Gli influencer non hanno inventato niente

Tutti parlano di influencer come se fossero una rivoluzione. Ma se guardi i meccanismi che stanno dietro, scopri che è sempre la stessa storia, solo raccontata in modo più furbo.

La dinamica dell'uso degli influencer nel marketing è abbastanza semplice e fa leva sul concetto di prova sociale, ovvero "se lo fanno gli altri e ne parlano bene vuol dire che funziona". Una volta c'erano i testimonial, solitamente personaggi famosi che venivano pagati per prestare la loro autorevolezza guadagnata dalla fama, alla promozione di un prodotto. In realtà si tratta di una forma di mercenarismo commerciale, ma del resto a chi non piacciono i soldi facili? E poi i famosi vivono proprio capitalizzando la loro fama.

Poi sono arrivati gli influencer, che rappresentano la parcellizzazione del concetto di testimonial nel senso che invece di una persona molto pagata ma che non incontra i gusti dell'universo dei consumatori a cui vorrei vendere il mio prodotto, ne prendo tante, allo stesso prezzo se non a meno. Lascio ad ognuna la libertà di descrivere e magnificare il mio prodotto sfruttando la loro capacità di coinvolgere la loro community. In questo modo non solo mi levo il problema di comunicare il mio prodotto, che vi assicuro non costa poco, ma oltre a questa delega che ottimizza i costi, arrivo a nicchie che altrimenti raggiungerei più difficilmente.

Non conta più il come comunico, nel senso che non sono più io azienda a farlo direttamente, ma cosa comunico. Ma a questo punto il lavoro diventa più simile a quello che si fa con i media, che non quello che si fa in pubblicità. Si crea del materiale, la famosa "cartella stampa", si distribuiscono campioni o si organizzano meeting di prova ed il gioco è fatto. Il bisogno di attenzione degli influencer capitalizzato in una situazione win-win. Vinco io perché spendo meno, vince l'influencer perché capitalizza un suo punto debole e vince il consumatore che capisce il prodotto perché chi glielo spiega è uno come lui, fa parte, anzi è il capo della sua community di riferimento.

In tutto questo si combinano meccanismi psicologici come il già citato bisogno di attenzione degli influencer, che non sono artisti con un particolare talento ma semplici persone che sono riuscite a crearsi un seguito grazie spesso solo alla propria necessità di avere un pubblico e sentirsi accettati. Poi la riprova sociale che colpisce direttamente l'utente, il senso di appartenenza e quindi il bisogno primario di allinearsi alle regole del gruppo assumendone i comportamenti e le abitudini, sì anche quelle di scelta dei prodotti. Aggiungerei una forma distorta di nudging laddove l'influencer funge da filtro per spingere a scegliere questo prodotto piuttosto che l'altro.

Ma gli influencer spesso non sono esperti del settore. Cioè non sono come lo erano una volta i giornalisti che scrivevano di un certo argomento perché lo conoscevano bene, qui per la maggior parte abbiamo a che fare con ex consumatori che si sono "elevati" di un gradino. Quindi se prima potevo credere all'articolo di Quattroruote in cui ci si lamentava per un aspetto tecnico di un veicolo, adesso il piano su cui ci pongono gli influencer è molto più emozionale, di pancia. Magari quel veicolo tecnicamente fa schifo ma ogni influencer, esattamente come ogni consumatore, ci vede qualcosa di bellissimo che non è di per sé funzionale al bene stesso ma è una beauty feature. Nel caso di prima il design degli interni vs. la pessima qualità delle plastiche. E lo stesso possiamo dirlo di tutti i prodotti.

Quella che potremmo definire la fallacia dell'influencer, cioè la sua incapacità di valutare oggettivamente un prodotto è anche la sua forza comunicativa perché parla al suo pubblico dicendo esattamente le cose che il suo pubblico vuole sentire. Ma c'è un effetto collaterale che spesso non consideriamo: se per l'influencer una cosa mediocre diventa "bellissima", quello che si genera è un progressivo abbassamento degli standard. La percezione di valore e lusso si livella verso il basso perché il punto di riferimento non è più l'eccellenza tecnica o la qualità oggettiva, ma l'entusiasmo soggettivo di chi deve vendere contenuti.

Un prodotto decente viene spacciato per straordinario, uno straordinario per rivoluzionario, e così via. Il risultato è che il consumatore perde la capacità di distinguere tra ciò che è davvero buono e ciò che è solo ben raccontato.

Ci sono anche gli influencer più preparati, per fortuna, penso al biologo nutrizionista per fare un esempio, o la cosmetologa, ma qui il paradosso è che dovendo monetizzare il loro lavoro come creators, finiscono con il pubblicizzare prodotti che vanno spesso contro quella che dovrebbe essere la loro deontologia. Se sei un nutrizionista non puoi promuovere barrette proteiche a base di chimica.

Alla fine, comunque la mettiamo, i meccanismi della comunicazione sono gli stessi da decine di anni, a cambiare sono il media ed il metodo che diventa sempre più raffinato e manipolatorio al punto che diventa difficile esserne immuni, anche consapevolmente.

E forse questa è la lezione più importante: non importa quanto pensiamo di essere furbi o informati. Il bisogno di appartenenza e la fiducia in "uno come noi" sono più forti della logica. Gli influencer non hanno inventato niente di nuovo; hanno solo trovato un modo più efficace di sfruttare quello che siamo sempre stati: animali sociali che seguono il branco, anche quando il branco ha una cartella stampa e un codice sconto.