Il nazionalismo automobilistico non si compra con i dazi

Quando un governo annuncia dazi per "proteggere l'industria nazionale", sta essenzialmente ammettendo una sconfitta. Sta dicendo: "I nostri prodotti non sono abbastanza buoni da competere, quindi costringiamo i cittadini a comprarli comunque." È protezionismo per capitolazione.
Ma esiste un'alternativa più sofisticata e più potente: il protezionismo della mente. Non barriere tariffarie che costringono, ma narrazioni culturali che persuadono. Non coercizione economica, ma costruzione di identità . È quello che chiamo nazionalismo automobilistico basato sulla persuasione e quando funziona davvero, è praticamente inespugnabile.
C'è solo un problema: in Europa, questo gioco è truccato dall'inizio.
Il mercato più chiuso del mondo (che non ha dazi)
Il Giappone è l'esempio perfetto. I veicoli d'importazione hanno raggiunto una quota record del 9,1% nel 2024. Sembra un mercato aperto, giusto? Ma guardiamo più da vicino: quella percentuale è quasi interamente Mercedes-Benz, BMW, Audi. I marchi di massa stranieri, americani, europei, coreani, sono praticamente inesistenti.
Non ci sono dazi significativi a bloccarli. Non ci sono leggi che vietano l'importazione. Eppure il mercato è impermeabile come una fortezza.
Il motivo? Cinquant'anni di costruzione culturale sistematica. I produttori giapponesi non hanno venduto solo automobili - hanno venduto l'idea che "affidabilità = giapponese", che "qualità = locale", che tradire un marchio domestico significhi tradire un'intera filosofia di vita basata su precisione e dedizione artigianale.
Quando BYD, il colosso cinese dell'elettrico, è entrato nel mercato giapponese nel 2023, aveva tutto dalla sua parte: tecnologia superiore, integrazione verticale che garantiva costi imbattibili, prodotti competitivi. Ha perfino superato Toyota nelle vendite di veicoli puramente elettrici nel 2024.
Ma in termini assoluti? Le vendite sono state miserrime. Il mercato giapponese semplicemente non si è mosso. BYD ha dovuto cambiare strategia completamente: ha abbandonato il posizionamento premium e ha lanciato sconti aggressivi. Sta persino sviluppando una Kei car elettrica, attaccando il cuore sacro del mercato domestico.
Funzionerà ? È l'esperimento più interessante in corso: può il puro vantaggio di prezzo sfondare una barriera culturale costruita in mezzo secolo?
Quando il nazionalismo funziona: la lezione di Detroit
Super Bowl 2011. Chrysler è appena uscita dal fallimento grazie a un salvataggio governativo che metà dell'America considerava uno spreco di soldi pubblici. Detroit è il simbolo globale del declino industriale, una città devastata dove intere fabbriche sono rovine post-apocalittiche.
In questo contesto, Chrysler lancia "Imported from Detroit" con Eminem.
Lo spot dura due minuti e non parla quasi mai di automobili. Parla di una città "che è stata all'inferno e ritorno". Parla di resilienza. Parla del fatto che "il fuoco più caldo crea l'acciaio più duro". E alla fine, quasi di sfuggita, dice: questa macchina viene da lì. Da quel dolore, da quella lotta, da quella determinazione.
L'impatto fu esplosivo. Le vendite della Chrysler 200 aumentarono del 100% nei mesi successivi. Ma soprattutto, la campagna innescò un dibattito nazionale su cosa significasse "Made in America" e se l'America potesse ancora costruire cose di valore.
Perché funzionò così bene? Per tre ragioni che ogni stratega dovrebbe scolpire nella pietra:
1. Non vendeva superiorità , vendeva autenticitÃ
Il messaggio non era "siamo i migliori del mondo". Era "siamo ancora qui, ancora in piedi, e questo conta qualcosa." Umiltà combattiva, non arroganza nazionalista.
2. Il testimonial era credibile fino al midollo
Eminem non è solo di Detroit; è Detroit. La sua storia personale di povertà , lotta e successo contro ogni previsione rispecchiava perfettamente la narrazione della città . Zero artificio, massima autenticità .
3. Trasformò una debolezza in un punto di forza
"Imported from Detroit" è geniale perché rovescia lo stigma. Sì, veniamo da una città in crisi. E proprio per questo, questa macchina ha anima. Ha storia. Ha significato.
Ma c'è un quarto elemento, invisibile ma cruciale: Chrysler poteva fare questa campagna perché gli Stati Uniti sono uno stato-nazione. Detroit compete con altre città americane, ma non contro la volontà strategica di un altro governo che vuole svuotarla di fabbriche.
In Europa, questo lusso non esiste.
Il paradosso europeo: l'unione che divide
L'Unione Europea ha creato un mostro sistemico quando si parla di industria automobilistica. Ufficialmente, c'è il mercato unico, la libera circolazione, la "solidarietà europea". Bruxelles parla di "campioni europei" e di proteggere l'industria continentale dalla Cina.
Ma nella realtà ? Gli Stati membri combattono guerre economiche spietate tra loro per accaparrarsi investimenti e produzione.
Prendiamo Stellantis, che sulla carta dovrebbe essere un "campione europeo". In Italia viene percepita come un'entità francese che delocalizza verso la Francia. Ma se vai a Parigi, ti dicono che Stellantis privilegia i sindacati italiani e che troppa produzione resta in Polonia o in Spagna. Ognuno vede il "tradimento" verso la propria nazione.
E qui sta il paradosso mortale: come costruisci nazionalismo automobilistico quando la tua "industria nazionale" può spostare la produzione in un altro paese dell'Unione senza conseguenze tariffarie?
Un cittadino tedesco può comprare una Volkswagen "tedesca" che è stata assemblata in Slovacchia con componenti cechi. Un francese può comprare una Renault "francese" costruita in Romania. Un italiano può comprare una Fiat "italiana" che viene da uno stabilimento polacco.
Dov'è esattamente la "nazione" in tutto questo?
Il caso italiano: quando il nazionalismo è un'arma spuntata
L'Italia vive questa contraddizione nella sua forma più acuta. La Fiat ha letteralmente motorizzato l'Italia del dopoguerra. La 500, la 600, non erano solo macchine, erano il simbolo tangibile del miracolo economico, l'accesso alla mobilità e alla modernità per milioni di italiani. Mirafiori non era solo una fabbrica, era un'istituzione che definiva Torino tanto quanto la Mole.
Oggi la produzione italiana è crollata da quasi 2 milioni di veicoli a meno di 500.000. Ma non è solo un declino. E' una redistribuzione strategica all'interno dell'Unione Europea.
Quando Stellantis decide di produrre un nuovo modello, deve scegliere: Melfi o una fabbrica francese? Pomigliano o uno stabilimento spagnolo? E questa scelta viene fatta sulla base di:
- Quali incentivi offrono i governi locali
- Quale sindacato è più flessibile
- Dove ci sono le infrastrutture migliori
- Quale governo è disposto a chiudere un occhio su questioni ambientali
È una gara al ribasso mascherata da "ottimizzazione della catena produttiva europea". E l'Italia, con sindacati storicamente combattivi, burocrazia pesante e governi instabili, sta perdendo sistematicamente.
Il governo italiano può urlare contro Stellantis quanto vuole. Può accusarla di "tradimento". Ma Stellantis può semplicemente rispondere: "Stiamo ottimizzando la nostra presenza europea. Le regole dell'Unione lo permettono. Se volete più produzione, create condizioni competitive."
È un gioco dove l'Italia non ha carte vincenti, perché le regole sono state scritte assumendo che la "solidarietà europea" avrebbe prevalso sugli interessi nazionali. Non è andata così.
Il vincitore silenzioso: la Germania e il vero protezionismo europeo
Mentre tutti parlano di Cina e dazi, la Germania ha vinto la partita europea senza sparare un colpo.
Volkswagen, BMW, Mercedes non sono "campioni europei" ma sono campioni tedeschi che dominano il mercato europeo. E lo fanno perché:
1. Controllo della supply chain: I componenti critici vengono prodotti in Germania. L'assemblaggio può essere delocalizzato, ma il valore aggiunto rimane tedesco.
2. Posizionamento premium: Hanno evitato la competizione sul prezzo puntando sulla qualità percepita. Quando compri una BMW assemblata in Ungheria, compri comunque "ingegneria tedesca".
3. Integrazione con la politica industriale tedesca: Il governo tedesco ha capito da decenni che Standort Deutschland (la Germania come sede produttiva) significa mantenere R&D, design, e produzioni ad alto valore aggiunto. Il resto può essere delocalizzato.
4. Peso politico a Bruxelles: Quando l'UE discute regolamentazioni automotive, la voce tedesca conta enormemente. Le normative europee tendono stranamente a favorire tecnologie dove i tedeschi sono forti.
Il risultato? La Germania ha usato il mercato unico per costruire un impero industriale continentale mascherato da "integrazione europea". E lo ha fatto senza violare una singola regola UE.
È protezionismo soft portato a un livello di sofisticazione estrema: non proteggi i tuoi confini, ma domini così bene la catena del valore che i confini diventano irrilevanti.
Come si costruisce nazionalismo quando la nazione non controlla più nulla?
Torniamo alle tecniche di persuasione. In un contesto normale, Stati Uniti, Giappone, persino Regno Unito post-Brexit, puoi costruire narrazioni nazionaliste perché esiste una corrispondenza tra:
- Dove viene progettata l'auto
- Dove viene costruita
- Chi beneficia economicamente
- Chi controlla le decisioni strategiche
In Europa continentale, questa corrispondenza si è dissolta.
Riprova sociale: Mostrare italiani che comprano Fiat? Ma quella Fiat specifica viene da Tychy, Polonia. Il tuo vicino che compra quella macchina sta sostenendo l'occupazione polacca, non quella di Pomigliano.
Autorità e coerenza: "Se sei orgogliosamente italiano, compra italiano"? Ma cosa significa "italiano" quando il marchio è controllato da una multinazionale, prodotto in mezza Europa, e le decisioni vengono prese guardando i bilanci consolidati del gruppo?
Storytelling emotivo: La storia di Mirafiori e del miracolo economico? Bellissima, ma stride brutalmente con le linee di produzione semivuote e la cassa integrazione perpetua.
Tutte le tecniche classiche del nazionalismo automobilistico si inceppano contro la realtà dell'integrazione europea che ha de-nazionalizzato la produzione senza creare una vera identità europea sostitutiva.
L'unica strada rimasta: il nazionalismo della qualità percepita
Se l'Italia (o la Francia, o la Spagna) vuole costruire un nazionalismo automobilistico credibile nel contesto UE, deve smettere di giocare sul campo della produzione fisica e spostare tutto sulla qualità percepita radicata nell'identità nazionale.
Guarda cosa ha fatto la Germania: nessuno si chiede dove viene assemblata la sua BMW. Si chiede: "È ancora costruita secondo gli standard tedeschi?" La risposta, nell'immaginario collettivo, è sì - e questo basta.
L'Italia potrebbe fare lo stesso, ma su un terreno diverso:
Non "costruita in Italia" (perché spesso non è vero)
Ma "disegnata secondo il genio italiano" (design, stile, quella ineffabile qualità estetica che il mondo associa all'Italia)
Questo significa:
1. Concentrare investimenti dove la percezione conta: I centri di design devono restare visibilmente, orgogliosamente italiani. Torino deve essere il cuore pulsante dell'innovazione stilistica, non un ufficio satellite.
2. Rendere il "DNA italiano" verificabile: Ogni auto deve avere elementi che gridano "questo poteva venire solo dall'Italia", non nella meccanica (dove la competizione è perduta) ma nell'esperienza d'uso, nell'interfaccia, nei dettagli che fanno la differenza emotiva.
3. Trasformare gli stabilimenti rimasti in showcase: Mirafiori dovrebbe essere un'attrazione nazionale dove vedi dal vivo come si produce "bellezza su quattro ruote". Non nascondere la riduzione della produzione. Dovrebbe celebrare l'eccellenza artigianale di ciò che resta.
4. Usare la diaspora produttiva come forza: "Questa Fiat è stata costruita in Polonia, ma ogni linea è stata disegnata a Torino, ogni dettaglio riflette 100 anni di pensiero automobilistico italiano." Trasformare la delocalizzazione da debolezza a prova di influenza culturale.
È una strategia di ripiego? Sì. Ma è l'unica che funziona quando hai perso il controllo della produzione fisica ma puoi ancora controllare la narrazione culturale.
Cosa l'UE dovrebbe fare (ma non farà )
L'Unione Europea potrebbe risolvere questo casino con una mossa semplice: creare vera trasparenza sulla catena del valore.
Obbligare ogni auto venduta in Europa a mostrare chiaramente:
- Dove è stata progettata (percentuale del lavoro di design per paese)
- Dove sono stati prodotti i componenti critici
- Dove è stata assemblata
- Quale percentuale del valore aggiunto va a quale paese
Questo darebbe ai consumatori informazioni reali per scelte basate su "compra nazionale" se lo desiderano. Ma rivelerebbe anche quanto profondamente integrata (o disintegrata, dipende dalla prospettiva) sia l'industria europea.
La proposta non verrà mai approvata. Troppi interessi incrociati, troppe verità scomode che emergerebbero.
Preferiscono mantenere l'ambiguità , dove ognuno può reclamare "il suo" marchio nazionale mentre la produzione viene spostata dove conviene di più al gruppo multinazionale.
La verità finale: il nazionalismo automobilistico europeo è un ossimoro
Eccoci al punto che governi e aziende non vogliono ammettere:
Non puoi costruire nazionalismo automobilistico autentico in un'area dove hai mercato unico ma non nazione unica.
Il Giappone può farlo perché è uno stato-nazione con politiche industriali coordinate.
Gli Stati Uniti possono farlo perché, nonostante il federalismo, esiste identità americana condivisa.
La Germania può farlo perché ha usato il mercato unico per espandere la propria influenza, non per diluirla.
Ma l'Italia? La Francia? La Spagna?
Possono gridare "compra nazionale" quanto vogliono. Ma se il capitale è libero di muoversi, la produzione libera di delocalizzare e le decisioni strategiche prese guardando bilanci continentali, il nazionalismo diventa teatro vuoto.
L'unica vera domanda è: l'UE vuole essere un mercato o una comunità ?
Se è un mercato, allora accettate che il nazionalismo automobilistico morirà ovunque tranne in Germania, che ha vinto giocando meglio.
Se è una comunità , allora create meccanismi reali di solidarietà industriale - non chiacchiere su "campioni europei", ma vincoli concreti sulla delocalizzazione intra-UE e redistribuzione coordinata della produzione.
Attualmente è nel mezzo: abbastanza integrata da impedire vero protezionismo nazionale, abbastanza frammentata da permettere guerre economiche intestine.
È il peggior equilibrio possibile.
In sintesi: Il nazionalismo automobilistico basato sulla persuasione funziona - in Giappone, negli Stati Uniti, persino in Germania. Ma in Europa, l'integrazione economica senza integrazione politica ha creato un sistema dove costruire narrazioni nazionaliste autentiche è quasi impossibile. Puoi fare appello all'identità culturale, ma quando quella identità non corrisponde più a nessuna realtà produttiva o decisionale, diventa nostalgia impotente.
Le nazioni europee hanno due scelte: costruire un'identità europea che sostituisca quelle nazionali (improbabile), o accettare che hanno scambiato la sovranità industriale per un mercato più grande, e il nazionalismo automobilistico è stato il prezzo da pagare.