L'accordo Israele-Hamas

by Rollo


L'accordo Israele-Hamas

Quando viene annunciato un accordo tra Israele e Hamas, la domanda che tutti dovremmo farci è semplice. Stiamo vedendo una vera svolta o solo l'ennesimo episodio di una storia già vista? La risposta, se lasciamo da parte le speranze e guardiamo ai fatti con lucidità, è chiara. Non siamo di fronte alla fine del conflitto, e nemmeno a un passo in quella direzione. Quella che ci troviamo di fronte è una pausa tattica, un accordo fragile nato da necessità politiche del momento, la cui struttura è così debole da essere destinata a fallire. L'intervento dell'amministrazione Trump non garantisce una pace duratura. È piuttosto il segno di un calcolo politico americano, dove l'immagine di un successo diplomatico conta più della sua reale efficacia nel tempo.

Svolta epocale o pausa tattica?

Il primo errore da non fare è scambiare un evento da telegiornale per un cambiamento storico. La narrazione di un "accordo storico" fa pensare a una svolta epocale, che cambia le regole del gioco per sempre. La realtà, però, ci mostra uno schema che purtroppo conosciamo bene, quello delle tregue temporanee. La storia del conflitto tra israeliani e palestinesi è piena di pause e cessate il fuoco che, pur dando un po' di respiro, non hanno mai risolto i problemi alla radice.

Una vera svolta richiederebbe un cambiamento totale degli interessi di tutte le parti in gioco, supportato da garanzie internazionali, soldi per la ricostruzione e un progetto politico credibile. L'accordo di oggi, limitato a una prima fase di 42 giorni, non ha nulla di tutto questo. Nasce da bisogni immediati e diversi. Il governo israeliano deve calmare le pressioni internazionali e interne per la liberazione degli ostaggi. Hamas, d'altra parte, ha bisogno di tempo per riorganizzare le sue forze e mostrarsi come l'unica entità capace di trattare con Israele. È una mossa su una scacchiera, ma la partita rimane la stessa.

Un castello di carte senza fondamenta

Una pace che dura nel tempo ha bisogno di tre cose: interessi comuni, soldi per ricostruire e garanti internazionali forti. L'accordo attuale non ha nessuno di questi elementi, e per questo è come un castello di carte. Crollerà al primo soffio di vento.

Se analizziamo gli interessi reali di chi prende le decisioni, capiamo subito che per nessuno è davvero conveniente mantenere la pace a lungo. Siamo in una situazione dove l'interesse a rompere l'accordo cresce ogni giorno che passa. Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, la pace significa la fine del suo governo e l'inizio dei suoi problemi con la giustizia. Il suo interesse è usare la tregua per poi mostrare di nuovo i muscoli al suo elettorato. Per Hamas, l'obiettivo non è la pace con Israele, ma sopravvivere e rafforzarsi a Gaza. Questa pausa serve a quello, non a costruire una convivenza pacifica.

Manca anche il secondo elemento, quello economico. Una pace vera ha bisogno di trasformare un'economia basata sulla guerra in una basata sulla ricostruzione e sul benessere. Servirebbe un grande piano per Gaza, come avvenne in Europa dopo la guerra, con fondi internazionali dati solo a fronte di precisi impegni di sicurezza e stabilità. In questo modo, il denaro diventerebbe uno strumento per incoraggiare comportamenti pacifici. L'accordo di oggi non prevede niente del genere. Si limita a far entrare più aiuti umanitari, una cosa giusta, ma che non cambia il fatto che il conflitto, economicamente, conviene ancora a qualcuno.

Infine, la squadra di mediatori, cioè USA, Qatar ed Egitto, è sempre la stessa. In passato ha già dimostrato di non avere abbastanza forza per imporre una pace vera. Per garantire un accordo servirebbero le maggiori potenze mondiali, Cina inclusa, pronte a far pagare un prezzo altissimo a chi non rispetta i patti. Il fatto che non ci sia un gruppo di garanti così forte ci fa capire che l'obiettivo non è imporre la pace, ma solo gestire una tregua temporanea.

Un accordo per Washington, più che per il Medio Oriente

È impossibile capire questo accordo senza guardare a cosa succede nella politica americana, soprattutto con il coinvolgimento dell'amministrazione Trump. Il modo e i tempi con cui è stato presentato fanno pensare che il vero vincitore non si trovi in Medio Oriente, ma a Washington. Per un presidente che vuole proiettare un'immagine di forza e di successo, un accordo di pace in questa regione, anche se fragile, è un'ottima carta da giocare in casa e all'estero.

L'importante non è che l'accordo duri, ma che se ne possa parlare in televisione. L'obiettivo è la fotografia, la stretta di mano, il titolo sul giornale. Questo cambia tutto. Il successo non si misura più con gli anni di pace, ma con l'impatto mediatico del momento. Ecco perché si è spinto per un accordo veloce, senza affrontare le complesse trattative necessarie per costruire qualcosa di solido. Si è preferita una vittoria rapida e visibile a una soluzione lenta e complicata. L'accordo diventa così uno strumento della politica estera americana per raggiungere obiettivi di politica interna.

Oltre le illusioni

In conclusione, l'accordo del 9 Ottobre 2025 non è la pace e non è nemmeno un passo in quella direzione. È una mossa tattica, molto utile per l'immagine ma vuota nella sostanza, che serve gli interessi a breve termine di tutti, compresi i mediatori americani. La sua struttura non ha le basi necessarie per durare. Guardando le cose come stanno, senza farsi illusioni, la previsione è chiara. Una volta che tutti avranno ottenuto il piccolo vantaggio che cercavano da questa pausa, le vere ragioni del conflitto torneranno a galla. L'esperienza di decenni ci insegna che, con ogni probabilità, assisteremo a un ritorno delle ostilità.