L'hamburger vegano e l'arte perduta di creare categorie

Ottobre 2020. Il Parlamento Europeo respinge il divieto di chiamare "hamburger" o "salsiccia" i prodotti a base vegetale. Nello stesso voto, però, rafforza il divieto, ,già esistente, di usare termini come "latte" o "formaggio" per prodotti non caseari. Hamburger vegano sì, latte di mandorla no. Se ti sembra una decisione schizofrenica, è perché lo è. Ma il problema non è legislativo, bensì è architetturale.
L'industria vegana ha commesso un errore strategico fondamentale: ha usato il linguaggio della carne come stampella per entrare nel mercato e poi si è dimenticata di buttare quella stampella. Dieci anni dopo, siamo ancora all'"hamburger vegano". E questo non è solo un problema di marketing ma è il sintomo di un fallimento nel design di una nuova categoria di mercato.
La lezione che nessuno vuole imparare dalle disruption reali
Quando l'automobile arrivò, per un breve periodo fu chiamata "carrozza senza cavalli". Ma divenne rapidamente "automobile", con il suo universo semantico, culturale, rituale completamente nuovo. Non è rimasta per vent'anni "la carrozza motorizzata migliore". Ha creato la sua identità .
Stesso pattern col computer. Inizialmente "macchina da scrivere elettronica" per far capire alla gente cosa facesse. Ma in fretta è diventato "computer", poi "personal computer", con tutto il suo linguaggio proprietario: desktop, file, cartelle, mouse. Un ecosistema cognitivo autonomo.
Il telefono cellulare non si è chiamato "telefono portatile" per sempre. È diventato "cellulare", poi "smartphone", e ora ha generato comportamenti, rituali, perfino patologie (nomofobia) che non esistevano prima. Ha creato un mondo.
La disruption vera non parassita il vecchio ma- lo sostituisce. Non dice "sono come quello ma migliore". Dice "sono una cosa nuova, e tra dieci anni capirai che è superiore".
L'industria vegana ha fatto l'opposto. Ha usato il linguaggio della carne come passepartout psicologico per entrare nel frigorifero del consumatore, ma poi si è adagiata. È passata una decade intera, e siamo ancora a "hamburger vegano", "salsiccia vegetale", "bacon plant-based". È come se nel 1930 vendessero ancora "carrozze motorizzate perfezionate". Sarebbe ridicolo. Lo è anche qui.
La trappola della surrogazione simbolica
Chiamare una polpetta di legumi "hamburger" è un nudge comportamentale. Lo capisco perfettamente. Stai abbassando la barriera cognitiva: il consumatore vede "hamburger" e pensa "ok, so cos'è, so come usarlo". Se lo chiamassi "disco proteico di origine vegetale", la gente non saprebbe dove metterlo nel pasto mentale. Quindi la logica iniziale è solida.
Il problema è che questa tattica, efficace per la conversione iniziale, costruisce il prodotto su fondamenta che non possiede. Lo definisci non per quello che è, ma per quello che non è: una copia, un'alternativa, un "quasi come". Lo posizioni in uno stato permanente di inferiorità psicologica rispetto all'originale.
Il consumatore non pensa "hamburger vegano" come categoria a sé. Pensa "hamburger", e poi "vegano" come modificatore restrittivo. Come dire "pizza senza glutine", che va bene se sei celiaco, ma nessuno la sceglie se può mangiare quella normale. È sempre una versione diminuita dell'originale.
Questo è il meccanismo della surrogazione simbolica: provi a hackerare la fiducia del consumatore appropriandoti di una categoria esistente, sperando di ereditarne il valore per osmosi. Ma non funziona così. Il valore non si trasferisce automaticamente. Anzi, spesso succede il contrario: erediti anche le aspettative dell'originale, e quando non le rispetti (perché non sei carne), delude.
Il casino legislativo come sintomo diagnostico
La decisione del Parlamento Europeo, "hamburger vegetale ok, latte vegetale no", è perfetta come sintomo diagnostico. Rivela che il sistema stesso non sa come classificare il fenomeno. E non lo sa perché la categoria è costruita su una finzione.
La carne è carne. Il latte è latte. Hanno definizioni precise, supply chain precise, normative precise. L'hamburger vegano è... cosa? Un prodotto a base di legumi che vuole essere carne ma non lo è? Un tentativo di replicare sensorialmente qualcosa usando ingredienti completamente diversi? Una categoria ibrida che sta tra cibo vegetariano tradizionale e innovazione tecnologica?
Nessuno lo sa davvero. E questa ambiguità non è accidentale, sfortunatamente è strutturale. È il risultato inevitabile di aver costruito un'identità di mercato basata sulla negazione ("non-carne") invece che sull'affermazione ("cosa nuova").
I legislatori non possono regolamentare quello che non esiste come categoria autonoma. Possono solo creare compromessi assurdi: hamburger vegano sì (perché "hamburger" ormai è diventato generico, come "kleenex"), ma latte vegetale no (perché lì la lobby casearia è più forte, e "latte" è ancora protetto). Il risultato è una schizofrenia normativa che riflette la schizofrenia di mercato sottostante.
L'ironia devastante del "naturale ultra-processato"
C'è un altro layer di ironia qui che va esplorato. Molti vegani giustificano la scelta con tre pilastri: salute, etica, ambiente. Ma i prodotti che stanno vendendo come "hamburger vegani", cioè Beyond Meat, Impossible Foods e simili, sono bombe di ingredienti industriali ultra-processati.
Guarda l'etichetta di un Impossible Burger: proteine di soia concentrate, olio di cocco, olio di girasole, proteine di patata, metilcellulosa, estratto di lievito, destrosio, leghemoglobina di soia (prodotta con OGM) e altri quindici ingredienti che tua nonna non riconoscerebbe come cibo.
Ora confrontalo con un hamburger tradizionale: carne macinata, sale, pepe. Fine.
Qual è più "naturale"? Quale richiede meno trasformazione industriale? Quale ha una supply chain più semplice?
La disconnessione è totale. Proclamano superiorità su salute e sostenibilità mentre vendono prodotti industriali che richiedono processi produttivi complessi, supply chain globali, additivi chimici per replicare gusto e texture della carne. Non sto dicendo che la carne industriale sia meglio, no sto dicendo che l'hamburger vegano ultra-processato non è la risposta che promettono di essere.
Se volevi davvero un'alimentazione vegetale più sana, mangeresti legumi, cereali integrali, verdure e altra roba che esiste da millenni. Non hai bisogno di un laboratorio che ti crei "carne finta". Ma questo non vende, perché non ha il fascino della sostituzione magica senza sacrificio.
Perché non hanno avuto il coraggio di creare la categoria
La domanda vera è: perché l'industria vegana non ha creato la propria identità ? Perché continua a parassitare quella della carne?
La risposta è brutalmente semplice: perché la maggior parte dei loro consumatori non vuole davvero "smettere di mangiare carne". Vuole "mangiare carne senza sensi di colpa". E l'intera categoria è costruita su questa ambiguità fondamentale.
Se fossi davvero convinto della superiorità della tua scelta, non cercheresti di camuffarla dietro il linguaggio di quello che stai sostituendo. I cristiani primitivi non chiamavano le chiese "templi pagani migliorati". Crearono un'identità completamente nuova, con il suo linguaggio, i suoi rituali, la sua mitologia. E conquistarono l'impero.
L'industria vegana ha rinunciato a questa battaglia culturale. Ha scelto la strada della convenienza nel breve termine - "chiamiamolo hamburger così la gente capisce", sacrificando la possibilità di costruire qualcosa di più grande nel lungo termine.
È lo stesso errore che fanno startup quando si presentano come "l'Uber di X" o "il Netflix di Y". È una stampella cognitiva per gli investitori, ma ti condanna a essere sempre "quello come l'altro". I veri winner creano la categoria. Airbnb non è "l'hotel peer-to-peer", è Airbnb. Amazon non era "la libreria online", è diventato Amazon.
Come si esce da questa trappola
Dire "chiamiamole polpette di legumi" è teoricamente corretto ma pragmaticamente suicida. Il consumatore medio vede "polpetta di legumi" e pensa "roba da hippie", non "pranzo normale". La battaglia semantica è già persa se cambi nome domani.
Serve un ponte evolutivo. Un linguaggio parallelo che gradualmente diventa dominante:
Mantieni "burger" nella fase di transizione, ma introduci termini proprietari che creano una cultura. Non "impossible burger" generico, ma categorie specifiche con identità forti: "Plant Performance Protein" per atleti, "Clean Protein Bowl" per salutisti, "Regenerative Food" per ambientalisti. Ogni segmento ha il suo linguaggio, i suoi rituali, la sua tribù.
Costruisci esperienze d'uso che sono migliori, non "equivalenti". Il meal prep per fitness diventa "plant power prep". La colazione proteica vegetale diventa un trend cool tra influencer. Crei ambassador che non dicono "ho smesso di mangiare carne" ma "ho scoperto una cosa nuova che mi fa stare meglio".
Focalizzi la comunicazione sui benefici intrinseci, non sulla sostituzione. Non "è buono come la carne", ma "ha questo profilo nutrizionale superiore", "costa meno", "si prepara più velocemente", "è più digeribile". Qualità che stanno in piedi da sole.
E piano piano, il riferimento alla carne diventa secondario. Come il caffè non ha più bisogno di dirsi "bevanda energetica alternativa all'alcol" (che era il suo positioning iniziale). È semplicemente caffè, con la sua cultura globale autonoma.
La lezione più grande: il coraggio di non imitare
Questo casino dell'hamburger vegano insegna qualcosa che va oltre il cibo. È una lezione su come si creano categorie di mercato, come si costruisce disruption reale, come si vince senza copiare.
La tentazione di imitare il successo esistente è fortissima. È più facile, più veloce, più sicura. Ma è anche la strada che garantisce di rimanere sempre secondi. L'originale avrà sempre più credibilità , più storia, più identificazione emotiva.
La vera forza strategica sta nel creare qualcosa di talmente diverso e desiderabile che la gente smette di pensare al vecchio per mancanza di interesse, non per senso di colpa. Non vinci dicendo "siamo meglio di loro". Vinci dicendo "siamo una cosa completamente nuova, e tra qualche anno vi chiederete come avete fatto a vivere senza".
L'industria vegana aveva questa opportunità . Poteva essere la Tesla del cibo - qualcosa di talmente innovativo e desiderabile che anche chi non gliene frega niente dell'ambiente lo vuole. Invece è diventata la Zune - una copia di qualcosa di più famoso, con qualche feature in più che nessuno chiede.
E ora si ritrova con un Parlamento Europeo che non sa come classificarla, consumatori che la vedono come "alternativa" anziché "scelta primaria", e una dipendenza strutturale dal linguaggio di quello che vorrebbe sostituire.
Forse tra altri dieci anni capiranno. O forse no. Nel frattempo, continueranno a vendere "hamburger vegani", perpetuando il limbo cognitivo che loro stessi hanno creato.
La prossima volta che senti qualcuno parlare di "disruption" o "innovazione rivoluzionaria", guardalo negli occhi e chiedigli: "Stai creando una categoria nuova o stai copiando una vecchia con qualche modifica?"
La risposta ti dirà tutto quello che devi sapere sul loro futuro.
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