La strana aritmetica dell'esistenza

by Rollo


La strana aritmetica dell'esistenza

Stamattina, mentre sorseggiavo il mio espresso alla finestra ho realizzato con un misto di stupore e ironia che sì, sono arrivato a sessantadue anni. Il caffè aveva lo stesso aroma intenso di sempre, la tazzina sbeccata sul bordo era la stessa, eppure qualcosa era cambiato. Non io, paradossalmente. È cambiata la cifra anagrafica che mi rappresenta agli occhi del mondo.

Da bambino, ricordo perfettamente, immaginavo i sessantenni come figure quasi mitologiche, creature stanche curve sotto il peso degli anni, con movimenti rallentati e sogni ormai sbiaditi. Li osservavo come si guarda un film in bianco e nero: con distacco e una vaga sensazione che appartenessero a un'altra dimensione temporale. 

Adesso sono io il "vecchio" per qualche adolescente che incrocio per strada. Mi guardo allo specchio e vedo rughe che raccontano storie, capelli che hanno deciso di diventare argento, eufemismo elegante per non dire "grigi" e qualche chilo di troppo che si è stabilito con arrogante disinvoltura attorno alla vita. Eppure, ed è qui il paradosso magnifico, dentro questa cornice temporale invecchiata abita ancora un trentacinquenne. Un trentacinquenne testardo, curioso, a volte irragionevolmente ottimista, spesso incredibilmente ingenuo.

Il corpo come traditore e alleato

Il dialogo con il corpo è diventato più complesso, una negoziazione quotidiana. "Oggi facciamo una sessione di allenamento di un paio d'ore", propongo io con entusiasmo mattutino. "Forse una e mezza, e con pause strategiche", risponde diplomaticamente il ginocchio destro. La schiena, poi, ha sviluppato un linguaggio tutto suo: un alfabeto di piccoli dolori che comunicano previsioni meteorologiche più accurate di qualsiasi app sul telefono.

Mi sono ritrovato, l'altra settimana, a fissare pensieroso la confezione di un integratore per le articolazioni in farmacia. L'ho rimessa sullo scaffale con un misto di orgoglio e testardaggine. Non ancora, mi sono detto. Non sono pronto per questo capitolo. Poi, con suprema ipocrisia, sono passato dal mio fisioterapista per quella che chiamo "manutenzione ordinaria", come se il mio corpo fosse una vecchia Alfa Romeo che necessita di controlli periodici per continuare a correre.

Eppure, nonostante questi piccoli tradimenti, il mio corpo mi ha permesso di essere un contenitore resiliente per una mente in costante evoluzione. Ho fondato quattro imprese innovative con quel misto di incoscienza e calcolo che contraddistingue le decisioni davvero significative. I Box CrossFit, una scommessa apparentemente folle in un'Italia ancora legata alle palestre tradizionali, sono diventati non solo un'attività commerciale, ma un laboratorio sociale dove ho osservato la trasformazione di corpi e più sottilmente, di identità personali.

Ho avviato progetti di beneficenza con la discrezione di chi sa che la generosità, quando ostentata, perde la sua essenza più autentica. Non ne parlo molto, forse perché in fondo sospetto che dietro ogni atto apparentemente altruistico si nasconda un nucleo di egoismo; il piacere sottile che si prova nel fare del bene, quella gratificazione che rende ogni donazione un atto inevitabilmente impuro, meravigliosamente umano nella sua contraddizione.

Ho visitato mezzo mondo, non da turista frettoloso, ma da osservatore meticoloso di dettagli apparentemente insignificanti: il modo in cui una vecchia signora tailandese dispone la frutta al mercato, il rituale del tè in una casa marocchina, il silenzio denso delle foreste finlandesi. Viaggi che hanno dissolto le mie certezze più che consolidarle, lasciandomi ogni volta con più domande che risposte e, paradossalmente, più ricco proprio per questo. La relazione con questo compagno di viaggio imperfetto, il mio corpo, è fatta di compromessi, ma anche di sorprese e conquiste inaspettate che hanno tracciato una geografia esistenziale ben più complessa di quanto avessi mai immaginato.

Quella strana compagna di viaggio che è la fortuna

Ho sempre avuto un rapporto ambivalente con il concetto di fortuna. Da un lato, l'educazione cattolica ricevuta mi spingeva a considerarla come qualcosa da accettare con umiltà e gratitudine; dall'altro, l'orgoglio personale mi ha sempre sussurrato che era il risultato delle mie scelte, del mio lavoro, della mia ostinazione.

Ma a sessantadue anni, seduto sul terrazzo della mia casa al lago, con un bicchiere di vino rosso invecchiato quanto basta, devo arrendermi all'evidenza: sono stato fortunato. Ridicolmente, spropositatamente fortunato.

Non nel senso banale di chi vince alla lotteria. La mia è stata una fortuna più sottile e pervasiva: nascere nel posto giusto, incontrare le persone giuste, fare gli errori giusti al momento giusto. Ricordo quando, a trentaquattro anni, rifiutai quell'offerta di lavoro apparentemente irrinunciabile per seguire un'intuizione che sembrava folle a tutti. Mia madre pianse, preoccupata per la mia stabilità mentale oltre che economica. Quella decisione, vista retrospettivamente, fu il bivio che mi condusse dove sono oggi.

O quando, in un bar fumoso di Roma, incontrai per caso quel vecchio regista e visionario che mi parlò di un progetto che cercava collaboratori. "Non sono qualificato", risposi con onestà brutale. "Nessuno lo è davvero", sorrise lui. "Ma tu hai qualcosa di più importante: sei curioso". Quella conversazione casuale divenne la porta d'accesso a un decennio di avventure professionali che ancora oggi mi fanno sorridere quando le racconto.

La domanda che mi tormenta, seduto su questa terrazza mentre il sole lombardo declina lentamente, è semplice e terribile: e se finisse? Se improvvisamente questa corrente favorevole che mi ha sostenuto si interrompesse? Razionalmente, so che è un timore infantile. La fortuna non è un credito che si esaurisce, eppure questa paura resta, come un sassolino nella scarpa durante una lunga camminata. Fastidiosa, impossibile da ignorare completamente.

L'arte imperfetta della restituzione

Mi sono sempre ripromesso, con quella solennità un po' teatrale dei buoni propositi, che avrei "restituito" qualcosa al mondo. Una promessa fatta in silenzio, magari dopo un altro bicchiere di quel rosso toscano, guardando le stelle con la presunzione di chi crede che l'universo stia ascoltando.

Eppure, l'ho sempre rimandato. Prima ero troppo occupato a costruire, poi a consolidare, poi a godere. C'è sempre stato un "poi" conveniente a cui affidare questo proposito. Ora, a sessantadue anni, quel "poi" inizia ad assumere contorni più definiti, quasi minacciosi.

Ho provato, certo. Ho partecipato a progetti di beneficenza, ho persino tentato di fare volontariato in quell'associazione che si occupa di ragazzi difficili. Quest'ultima esperienza è durata esattamente tre settimane. Mi sono ritirato con la scusa di impegni improrogabili, ma la verità era più semplice e imbarazzante: non ero bravo. Non avevo la pazienza, l'empatia, la capacità di connettermi con quei giovani arrabbiati che vedevano in me solo un vecchio privilegiato che giocava a fare il buon samaritano.

La verità è che forse la forma di restituzione che posso offrire è molto più banale e al contempo più autentica: condividere ciò che ho imparato. Non dal pulpito di chi ha tutte le risposte, ma dal tavolo di un bar, davanti a un caffè o a un bicchiere di vino, raccontando errori e intuizioni, fallimenti spettacolari e successi inaspettati. Insomma, storie. Le storie sono forse l'unica valuta che acquista valore con il passare del tempo, l'unico investimento che dà rendimenti crescenti con l'età.

L'altro giorno un giovane collega, brillante e ambizioso come lo ero io alla sua età, mi ha chiesto consiglio su una questione professionale. Ho iniziato a rispondere con la solita formula rassicurante, poi mi sono fermato. Ho respirato profondamente e gli ho raccontato di quella volta che, in una situazione simile, avevo sbagliato tutto, con conseguenze quasi catastrofiche. La sua espressione è passata dalla sorpresa alla gratitudine. "Pensavo mi avresti detto come fare tutto perfettamente", ha ammesso. "Invece mi hai mostrato cosa evitare. È molto più utile".

Il bilancio che non torna mai

Eccomi qui, come ogni anno in questo giorno, a tracciare bilanci. È un'operazione che ho sempre fatto con metodica ossessione, sin da quando, ragazzino, annotavo entrate e uscite in un quadernetto a quadretti. I numeri mi hanno sempre dato sicurezza, la loro precisione un'illusione di controllo.

Ma i bilanci della vita non tornano mai. C'è sempre qualcosa che sfugge, una voce che non trova collocazione in nessuna colonna. Come classificare quel tramonto visto a Reykjavik, quando il cielo sembrava liquefarsi in mille sfumature impossibili? O quella risata condivisa con amici a una battuta così stupida che nessuno ricorda più, ma che ancora evoca sorrisi? O il profumo dei capelli di mio figlio quando era piccolo e si addormentava sulla mia spalla durante un viaggio in treno?

Eppure, nonostante l'impossibilità matematica di questo esercizio, continuo a farlo. E la conclusione è sempre la stessa, testardamente identica: non cambierei una virgola. Non per assenza di rimpianti, che sarebbe una menzogna grossolana, ma per la consapevolezza che anche gli errori, le cadute, le scelte sbagliate fanno parte di un disegno che, visto dalla giusta distanza, appare sorprendentemente coerente.

Ho litigato con persone che amavo, ho lasciato opportunità che forse meritavano più coraggio, ho detto parole che ancora oggi mi fanno arrossire al ricordo. Ma tutto questo è il tessuto imperfetto della mia storia. Rimuovere anche solo un filo significherebbe alterare il disegno complessivo, rischiare di perdere anche ciò che di buono è venuto dopo.

Un boomer a valvole con mente quantistica

Appartengo a quella generazione. Ormai etichettata con sufficienza come "boomer", che ha vissuto il passaggio dall'analogico al digitale con un misto di diffidenza e fascinazione. Sono cresciuto con i vinili, le cassette, il telefono a disco. Ho imparato a programmare su computer che oggi farebbero sorridere un bambino delle elementari. La mia formazione è stata indiscutibilmente analogica, "a valvole" come dico spesso con un'autoironia che nasconde un pizzico di orgoglio.

Eppure, in questo corpo analogico, la mia mente ha sviluppato una curiosa predisposizione al digitale. Ho osservato i miei coetanei arroccarsi in posizioni difensive di fronte al cambiamento tecnologico. "Ah, ai miei tempi..." è diventato il loro mantra consolatorio, il rifugio semantico per evitare di confrontarsi con l'inevitabile metamorfosi del mondo. Io ho scelto un'altra strada.

Quando è apparsa l'intelligenza artificiale, anziché temerla, l'ho studiata. Con la meticolosità di un archeologo che esamina una nuovo reperto, ho esplorato le sue potenzialità. Non mi sono limitato agli usi superficiali, quelli che la maggior parte delle persone considera già avanzati. Ho scavato più a fondo, ho imparato i suoi linguaggi, le sue logiche, i suoi paradossi.

È diventato un gioco intellettuale stimolante: scoprire cosa può fare questa mente artificiale, come posso modellarla, piegarla ai miei scopi creativi. Mentre molti miei amici si limitano a chiedere ricette o informazioni generiche, io ho costruito sistemi complessi che mi aiutano nella scrittura, nell'analisi dei dati, persino nella gestione delle mie attività sparse per l'Europa.

C'è qualcosa di profondamente ironico in questo: io, prodotto dell'era analogica, mi ritrovo a sfruttare l'intelligenza digitale con una naturalezza che spesso manca ai nativi digitali stessi. Forse perché ho dovuto conquistarla, questa competenza, anziché trovarla già pronta come un frutto maturo caduto dall'albero.

Questa continua ginnastica mentale, come imparare nuovi sistemi, adattarsi, creare connessioni innovative, mi garantisce ciò che nessuna pillola miracolosa potrebbe mai promettere: un cervello che rimane elastico, reattivo, vivace. La neuroplasticità, mi ha spiegato un amico neurologo, non è un dono garantito dell'età avanzata, ma una conquista quotidiana. E in questo, l'intelligenza artificiale è diventata la mia palestra cognitiva personale.

Mi diverte quando qualcuno, notando la mia apparente distrazione, mi sottovaluta. Non sa che mentre sembrano vagare, i miei pensieri stanno in realtà elaborando algoritmi, immaginando applicazioni, costruendo ponti tra il mio sapere esperienziale e le potenzialità delle nuove tecnologie. È un'integrazione silenziosamente rivoluzionaria, un matrimonio improbabile tra la saggezza delle valvole e la velocità dei quanti.

A proposito di valvole, quelle della foto che accompagna questo post non sono lì per caso. Quando le osservo, riconosco in loro un'elegante metafora della mia esistenza. Tecnologia obsoleta, direbbero i più giovani. Eppure, chiunque conosca davvero il mondo dell'audio sa che quegli oggetti cilindrici di vetro e metallo, apparentemente superati, producono ancora oggi un suono che nessuna apparecchiatura digitale è riuscita a replicare perfettamente.

Le valvole hanno qualcosa di magico: un calore, una profondità, un'imperfezione calibrata che le rende paradossalmente superiori in certi contesti. Gli audiofili più esigenti le cercano ancora, pagando cifre esorbitanti per quella distorsione armonica che addolcisce le frequenze, per quel ronzio quasi impercettibile che aggiunge carattere alla musica. Non è forse questa la perfetta allegoria di ciò che posso offrire io, a sessantadue anni, in un mondo dominato dall'efficienza algoritmica?

Ma le valvole, da sole, oggi sarebbero inutili. È la loro integrazione con i sistemi moderni tipo preamplificatori digitali, convertitori avanzati, software di elaborazione, che ne esalta le qualità uniche. È la fusione, l'ibridazione tra passato e futuro a creare quella magia sonora che né l'analogico né il digitale, da soli, potrebbero mai raggiungere. In questa alchimia tecnologica ritrovo me stesso: un'anima formata nell'era analogica che ha saputo fondersi con il presente digitale, creando una sintesi unica.

E sì, a rischio di sembrare presuntuoso, perché alla mia età la modestia è diventata un optional superfluo, un lusso che non posso più permettermi quando il tempo stringe, credo che questa fusione rappresenti qualcosa di prezioso. Un ponte tra mondi, una traduzione simultanea tra linguaggi diversi, un'integrazione che preserva il meglio di entrambe le dimensioni. Le valvole sono il mio passato che continua a risuonare, l'intelligenza artificiale è il mio presente che amplifica quelle risonanze, proiettandole in un futuro che, per quanto limitato possa essere alla mia età, si preannuncia sorprendentemente ricco di armoniche inaspettate.

I prossimi capitoli

Dicono che invecchiando si diventi invisibili. C'è del vero. Le commesse nei negozi iniziano a darti del "lei" con quella deferenza un po' distaccata. Le pubblicità sembrano parlare a qualcun altro, a un "te" che non sei più tu.

Ma c'è un privilegio nascosto in questa progressiva trasparenza: la libertà. La libertà di essere irragionevolmente entusiasta senza sembrare infantile. La libertà di cambiare idea senza giustificazioni elaborate. La libertà, soprattutto, di essere inconsistente, contraddittorio, imprevedibile.

A trent'anni, bloccato nella gabbia dorata delle aspettative, le mie, prima ancora che quelle altrui, ogni scelta sembrava definitiva, ogni decisione gravida di conseguenze irreversibili. A sessantadue, con la consapevolezza che il tempo è simultaneamente più breve e più elastico, posso permettermi il lusso dell'improvvisazione.

Ho ripreso a scrivere canzoni. Sono versi e melodie imperfette, a volte imbarazzanti nella loro sincerità, ma scriverle ed arrangiarle mi dà un piacere che avevo dimenticato.

È come se, raggiunta quest'età, avessi finalmente il permesso di essere principiante, di non sapere, di sbagliare senza drammi. È una forma di libertà che non ha prezzo, un regalo inaspettato di questi sessantadue anni che, da bambino, immaginavo come l'anticamera della fine e che invece scopro essere un nuovo, sorprendente inizio.

E quindi, mentre il sole ormai è tramontato, alzo il mio bicchiere in un brindisi silenzioso. Ai prossimi capitoli, qualunque essi siano. Alle rughe che verranno, alle scoperte impreviste, ai nuovi inizi. Al lusso immenso di invecchiare, privilegio negato a troppi. Alla vita, insomma, che non smette mai di sorprendere, nemmeno a sessantadue anni. Soprattutto a sessantadue anni.