Le guerre della memoria e la progettazione fragile della commemorazione

Eugenia Roccella, ministra italiana per la Famiglia, ha dichiarato sabato scorso che i viaggi della memoria ad Auschwitz "servivano a dirci che l'antisemitismo riguardava un tempo collocato in una precisa area: il fascismo". Liliana Segre, 95 anni, sopravvissuta alla Shoah, ha risposto con durezza: "La memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi".
La polemica è esplosa secondo il copione prevedibile della polarizzazione italiana. Ma sotto la superficie tribale, c'è uno schema strutturale che attraversa continenti ed epoche: la battaglia per il controllo della memoria collettiva.
E questo schema rivela qualcosa di critico su come progettiamo o non progettiamo, i sistemi che dovrebbero impedirci di ripetere gli errori più catastrofici della storia.
Il meccanismo che sta sotto
Quando gestivo la transizione digitale negli anni '90, ho imparato una lezione che si applica sorprendentemente bene alle istituzioni della memoria: i sistemi complessi mantengono la loro funzionalità solo se preservano l'integrità strutturale dei loro componenti critici.
Spezza un collegamento fondamentale nell'architettura e l'intero sistema degrada. Non gradualmente ma precipitosamente.
Le commemorazioni come i viaggi ad Auschwitz sono sistemi progettati, anche se raramente li pensiamo così. Hanno un'architettura specifica: evento storico → analisi delle condizioni strutturali che l'hanno reso possibile → lezione universale applicabile al presente.
Nel caso della Shoah: nazifascismo → sterminio industriale di massa → imperativo categorico ("mai più" questi meccanismi totalitari, ovunque emergano).
Questo collegamento, nazifascismo come caso specifico di schema universale di totalitarismo, non è ideologia. È la progettazione funzionale del sistema. È quello che rende la commemorazione uno strumento di prevenzione invece che un rituale vuoto.
Quando Roccella suggerisce che questo collegamento sia stato "costruito per incentivare l'antifascismo", sta provando una manovra di separazione: dividere l'evento storico dalla sua lezione strutturale per poter rivendicare autorità morale su una diversa cornice narrativa ("il vero antisemitismo oggi è altrove").
Ma questo è esattamente come i sistemi di memoria collettiva collassano.
L'analogia con le risorse comuni
Elinor Ostrom vinse il Nobel per l'economia studiando come le comunità gestiscono risorse condivise, tipo foreste, zone di pesca, sistemi di irrigazione, senza degradarle nella "tragedia dei beni comuni".
Scoprì che i sistemi che funzionano hanno principi di progettazione specifici: confini chiari, regole adattate al contesto locale, controllo partecipativo, sanzioni graduate, meccanismi di risoluzione conflitti.
Ma soprattutto: il riconoscimento esplicito del diritto della comunità di organizzare se stessa.
La memoria collettiva funziona con meccanismi simili. È una risorsa condivisa che può essere preservata o degradata. E degrada rapidamente quando attori politici iniziano a "privatizzare" pezzi della narrazione per scopi tribali.
Lo schema è universale:
Russia, che usa la memoria della Seconda Guerra Mondiale per legittimare l'invasione dell'Ucraina chiamandola "denazificazione". Ha preso un sistema di memoria funzionante (l'URSS sconfisse il nazismo) e l'ha corrotto rimuovendo il collegamento con la lezione universale (il totalitarismo va combattuto ovunque) per giustificare... un'azione totalitaria.
Stati Uniti, dove la battaglia sui monumenti confederati è esattamente questo: un tentativo di riformulare la Guerra Civile non come "difesa della schiavitù" (fatto storico) ma come "eredità " o "diritti degli stati" (tribalismo mascherato).
Sudafrica, dove la Commissione per la Verità e la Riconciliazione - inizialmente considerata un modello globale - è stata progressivamente abbandonata. Trent'anni dopo, uno dei suoi architetti la descrive come degradata in "artefatto museale inerte" invece che "trampolino per cambiamento continuo". Perché? Mancanza di attuazione sistematica, resistenze politiche interne, e graduale trasformazione da strumento di prevenzione a distintivo identitario tribale.
Quando la memoria diventa arma invece che strumento
Ho visto questo schema in settori completamente diversi. Quando una buona pratica aziendale viene "adottata" da un'organizzazione che non ne capisce i principi strutturali sottostanti, ma vuole solo l'immagine. Copi il rituale, perdi la funzione. Le istituzioni della memoria hanno due modalità di fallimento:
Prima modalità : ritualizzazione vuota. Le commemorazioni diventano rappresentazioni senza connessione con comportamenti presenti. Gli studenti vanno ad Auschwitz, piangono, tornano e zero cambia nel loro modo di riconoscere meccanismi autoritari quando li vedono. È il rischio di cui parlava Roccella, ed è legittimo. Ma la soluzione non è rompere il collegamento storico, ma piuttosto è rinforzarlo connettendolo meglio al presente.
Seconda modalità : strumentalizzazione tribale. La memoria diventa munizione per dimostrare che "noi siamo moralmente superiori a voi". A quel punto ha perso completamente la funzione di prevenzione universale. Diventa solo un altro campo di battaglia identitario.
La ricerca educativa sui viaggi ad Auschwitz è chiara: quando preparati adeguatamente (prima, durante, dopo), questi non sono "gite" ma fattori scatenanti per quello che gli studiosi chiamano "empatia della cura", la formazione di cittadini storicamente consapevoli attraverso esperienza cognitiva, affettiva e fisica simultanea.
Ma, e questo è critico, l'efficacia dipende dal mantenere il collegamento strutturale intatto: questi orrori furono commessi da regimi specifici, in condizioni identificabili, e la lezione è universale.
La teoria dei giochi della memoria
C'è un'altra dimensione che molti perdono: la memoria collettiva è un punto di convergenza nel senso di Thomas Schelling.
I punti di convergenza sono soluzioni coordinate a cui le persone arrivano naturalmente in assenza di comunicazione esplicita. Funzionano perché hanno una certa "ovvietà " condivisa.
"Mai più fascismo" dopo la Shoah è un punto di convergenza. Ha tenuto l'Europa lontana dal totalitarismo per 80 anni non perché scritto in una legge, ma perché era un punto di convergenza condiviso per "cosa NON fare mai".
Quando qualcuno inizia a destabilizzare il punto di convergenza - anche con motivazioni apparentemente legittime ("ma oggi l'antisemitismo viene da altre fonti"), non sta solo facendo un'osservazione. Sta rimuovendo un meccanismo di coordinamento sociale.
E senza punti di convergenza condivisi, le società diventano molto più fragili. Perché ogni decisione richiede negoziazione esplicita invece di convergenza implicita su "ovvietà morali".
Via negativa: cosa NON fare
La tradizione ci insegna: è più facile sapere cosa NON fare che cosa fare.
Le società post-trauma che hanno gestito meglio la memoria collettiva sono quelle che hanno seguito alcuni "non fare" strutturali:
Non separare l'evento dalla lezione. La Germania post-nazista ha funzionato perché ha mantenuto il collegamento: "Questo è successo qui, a noi e la lezione è che dobbiamo vigilare per sempre contro questi meccanismi". Chi prova a dire "ma quello era un altro tempo" viene immediatamente riconosciuto come pericoloso.
Non permettere privatizzazione tribale della memoria. Nel momento in cui un gruppo si appropria della commemorazione per scopi identitari, il sistema degrada. La memoria deve rimanere una risorsa condivisa con lezione universale.
Non confondere legittima evoluzione con destabilizzazione. È ovvio che il contesto cambia. Ma aggiornare l'applicazione della lezione ("oggi l'autoritarismo si manifesta così") è diverso da rompere il nesso causale ("quel tipo di autoritarismo era specifico di allora").
Non trattare la memoria come rappresentativa invece che preventiva. Le commemorazioni che funzionano modificano comportamenti presenti. Quelle che falliscono sono solo teatro emotivo.
Il test dell'antifragilitÃ
I sistemi fragili si rompono sotto stress. Quelli robusti resistono. Quelli antifragili migliorano sotto stress.
Un'istituzione della memoria antifragile dovrebbe diventare più forte, non più debole, quando contestata. Come?
Attraverso il principio della via negativa: più la società evolve e cambiano le forme di autoritarismo, più diventa chiaro che i meccanismi strutturali sottostanti (tribalismo, capro espiatorio, normalizzazione della violenza, erosione dei contrappesi) rimangono costanti.
Ogni nuovo tentativo di autoritarismo dovrebbe rinforzare la lezione di Auschwitz, non indebolirla.
Ma questo richiede una progettazione consapevole. Richiede che chi gestisce istituzioni educative pensi come architetto di sistemi, non come attore politico.
L'implicazione per chi progetta politiche pubbliche
Se lavori nelle politiche educative, nella memoria istituzionale, o in qualsiasi sistema che deve trasmettere lezioni attraverso generazioni, la domanda clinica è:
Stai costruendo sistemi che mantengono integrità strutturale sotto pressione politica, o stai creando munizioni per future guerre della memoria?
Perché la storia delle Commissioni per la Verità e la Riconciliazione, da quella sudafricana che è stata abbandonata, a quelle in Rwanda dove la distinzione hutu/tutsi è diventata più rigida invece che più fluida, ci insegna una lezione brutale:
Senza progettazione robusta, manutenzione continua, e difesa attiva dell'integrità strutturale, anche i sistemi meglio intenzionati collassano.
E allora la memoria non previene nulla.
Diventa solo l'ennesimo campo di battaglia dove si combatte per superiorità tribale invece che per lezioni universali.
Alla fine, chi ha ragione in questa polemica italiana specifica? Non è quella la domanda interessante.
La domanda interessante è: come progettiamo istituzioni della memoria che sopravvivono ai loro progettisti e continuano a funzionare quando la politica cambia?
Perché questo è quello che separa le società che imparano dai propri errori catastrofici da quelle che li ripetono con nomi diversi.