Perché documentiamo tutto invece di vivere

Parliament Square, ore 14:30. Un ragazzo italiano con zaino da backpacker si posiziona davanti alla cabina telefonica rossa. Dietro di lui, immancabile, il Big Ben. Smartphone in alto, sorriso forzato, click. Poi ancora. E ancora. Finché la foto non è "perfetta". Insieme a lui una coda di persone pronta a fare esattamente la medesima cosa, in tutte le varianti del caso.
Mi fermo a guardare questa scena che si ripete identica da anni. Come qualle di chi si mette sul ponte per fotografarsi con il London Eze sullo sfondo o tutta la parliament house, a seconda della luce e dell'ora del giorno. Stessa location, stesso angolo, stesso sorriso plastificato. E mi chiedo: quando cazzo il turismo è diventato più performance che discovery?
Il punto di svolta che abbiamo ignorato
La risposta è precisamente identificabile: tra il 2007 e il 2010. Quando iPhone e social media si sono incontrati e hanno creato il cocktail perfetto per distruggere l'esperienza autentica.
Prima di allora, documentare aveva dei costi reali. Compravi rullini, aspettavi lo sviluppo, mostravi le foto a pochissime persone nel salotto di casa. Il friction era così alto che fotografavi solo momenti che davvero sentivi speciali. Il filtro era naturale: se non valeva la pena sprecare una foto del rullino, probabilmente non valeva neanche la pena fotografare.
Poi è arrivato il game changer: costo zero + reward istantaneo + metriche sociali visibili.
L'economia dell'attenzione ha vinto sull'economia dell'esperienza
Quello che stai osservando davanti a quella cabina rossa non è turismo. È production di contenuti per l'attention economy globale. Quella foto non documenta un'esperienza, crea un'identità sociale: "Sono una persona che viaggia, che ha visto il mondo, che conosce i landmark iconici".
Il vero problema? Non fotografi più per ricordare, fotografi per broadcast identity. Londra diventa un set cinematografico. I tuoi occhi diventano una camera da presa. Il momento presente viene sacrificato sull'altare degli algoritmi che neanche ti conoscono.
E qui entra in gioco la perversione finale: le piattaforme premiano algoritmicamente contenuti già visti. Instagram e TikTok spingono familiarità più piccola variazione. Quindi più gente fa quella foto, più l'algoritmo la premia, più diventa "la foto da fare". È un feedback loop perfetto che uccide la discovery.
L'insicurezza esistenziale del nostro tempo
Ma c'è qualcosa di ancora più disturbante sotto la superficie. Stiamo assistendo all'emergere di un nuovo tipo di insicurezza esistenziale: come se la tua esperienza diretta, i tuoi occhi, le tue emozioni in quel momento non fossero "abbastanza reali" senza validazione esterna.
È come se avessimo perso la bussola per capire cosa ha valore intrinseco per noi versus cosa ha valore performativo per altri. Molti ormai non sanno più distinguere tra il momento vissuto e il momento documentato. La foto diventa più reale dell'esperienza stessa.
Confessione di un ipocrita consapevole
Ecco la parte scomoda: anch'io ci casco. Anche sapendo tutto questo, mi sorprendo a pensare "questa sarebbe una bella storia per LinkedIn", mentre faccio l'aperitivo in cima allo Sky Garden invece di godermi quello che sto vivendo. È attention hijacking puro e neanche la consapevolezza ti immunizza completamente.
Stiamo crescendo una generazione che non distingue più tra essere presenti e dover "dimostrare" di esserlo. È un collasso della capacità di valutare l'esperienza per quello che è, non per come appare agli altri.
La domanda che mi ossessiona
È reversibile questo processo? O abbiamo definitivamente perso la capacità di stare in silenzio davanti a un paesaggio che ci cambia dentro, senza dover subito trasformarlo in contenuto?
Voi come fate? Riuscite ancora a vivere momenti intensi senza documentarli? O anche voi, come me, siete caught in questo loop tra presenza autentica e performance sociale?