Quando il corpo ti presenta il conto

by Rollo


Quando il corpo ti presenta il conto

L'ho sentito. Quel maledetto dolorino, tipo una piccola pugnalata. Ero lì, in quella fredda mattina d'allenamento, kettlebell in mano, sudore già sulla fronte nonostante il riscaldamento approssimativo. Non dovevo. Lo sapevo e l'ho fatto comunque. Mi sentivo invincibile, come sempre del resto. Anni passati a vantarmi del mio core d'acciaio, delle dragon flag che eseguivo come fossero nulla, e poi... crack. Un dolore sordo, inizialmente quasi ignorabile. Diagnosi: infiammazione retto-adduttoria. Pubalgia, per intenderci. Mi sono ritrovato nei panni di Oscar Pettinari, quel personaggio di Carlo Verdone che si lamentava continuamente dei suoi acciacchi. Io, diventato la caricatura che deridevo.

Swing dopo swing, li sentivo i muscoli lavorare, quella sensazione di potenza che ti fa sentire vivo. Ma il corpo aveva altri programmi per me. Una ribellione silenziosa, covata forse da tempo. Un tradimento metabolico pianificato nelle settimane di microtraumi ignorati.

Faccia a faccia col fisiatra

Mi ha guardato con quell'espressione. Quella che conosco bene perché la uso anch'io con i miei clienti quando fanno cazzate. "Ad una certa età, certe cose sarebbe meglio non farle". L'ho odiato in quel momento. Lui, mio coetaneo, ex bodybuilder trasformato in ultramaratoneta del deserto, arrampicatore e parapendista. Vorrei avergli risposto qualcosa di intelligente. Invece ho annuito, ingoiando l'amarezza insieme all'ibuprofene prescritto.

Ha indicato zone per me invisibili, ha pronunciato parole tecniche che ho capito solo a metà. Ma il messaggio era chiaro: ho superato il limite. Il core forte ma maltrattato, gli swing eseguiti con troppa foga ma anche anni di canottaggio e troppo poco buon senso. Il danno è fatto. Il corpo registra tutto, non dimentica niente. E prima o poi, ti presenta il conto.

La vita di un atleta spezzato

Ho passato tre giorni a rimuginare. Il programma d'allenamento che avevo costruito con tanta cura, ora carta straccia. Niente canottaggio. Niente esplosività del bacino. Tabù improvvisi su movimenti che facevano parte della mia identità. E nei momenti bui, ho fatto quello che faccio sempre: ho mangiato. Tristezza masticata e ingoiata, trasformata in grasso addominale. Chili di frustrazione accumulati su una situazione già critica.

Mi sono trovato davanti al frigo alle tre di notte, a fissare gli avanzi come fossero una soluzione invece che un altro problema. Ogni boccone un piccolo, effimero sollievo. Ogni caloria un pensiero rimandato. Ora mi tocca ricominciare. Palestra sì, ma come un principiante fragile. CrossFit ridotto a un'ombra di ciò che era. E tanta, tantissima mobility, quella cosa noiosa che ho sempre fatto controvoglia negli ultimi cinque minuti d'allenamento, quando la mente era già sotto la doccia.

L'ossessione della bici

Non ho più il rower. O meglio, ce l'ho ma non posso usarlo. Da fedele compagno a tentazione proibita. Il cardio però mi serve, più che mai con questi chili di troppo. È stato ieri notte, in uno di quei momenti di insonnia dolorosa, che ho pensato alla bici. Non una qualunque, perché non sono mai stato uno che fa le cose a metà. Una grave con le palle, la CROSS RACE C:62 PRO di CUBE in fibra di carbonio. Ho passato tre ore a guardarla online, come un adolescente col suo primo crush. Finalmente una bici come si deve con il cambio elettronico e tutto il resto del pacco gadget che non serve ad andare più veloci ma ad appagre l'ego. Ultimamente mi faccio troppi regali per appagarlo l'ego. Ma va beh.

La verità è che non ho mai amato pedalare. Ma ora mi aggrappo all'idea di questa bici come a una possibilità di rinascita. Come se un telaio in carbonio potesse ricostruire non solo la mia routine cardiaca, ma anche il mio ego atletico frantumato.

Mi guardo allo specchio la mattina. I contorni sfumati, la definizione persa, il dolore ancora presente. Non sono più quello di prima. E forse non lo sarò mai più. Ma potrei essere qualcosa di diverso. Un ciclista, magari. Qualcuno che ha imparato a rispettare i segnali, a leggere le strade, ad accettare che a volte rallentare non significa arrendersi. La pubalgia come punto di svolta esistenziale. Chi l'avrebbe mai detto.