La tecnologia incontra le due ruote

Stamattina è successo di nuovo. Sto guidando tranquillo sulla provinciale, la strada è libera, tutto scorre con quella fluidità che ti fa pensare che forse la giornata andrà bene. Poi all'improvviso la macchina inizia a rallentare da sola. Il cruscotto si illumina come un albero di Natale, sento quel ronzio sottile dei sensori in azione. Davanti a me, la causa di tutto questo spettacolo tecnologico: un ciclista con una maglia che grida "professionista" da ogni fibra di lycra, casco aerodinamico che potrebbe tagliare l'aria meglio di un jet, scarpe che costano probabilmente più del mio abbonamento Netflix annuale. Sta pedalando verso il bar del paese, quello con i tavolini di plastica bianca e il proprietario che urla sempre.
Ed eccomi qui, io e la mia auto intelligente, a ballare questo valzer grottesco dietro a uno che tra mezz'ora starà raccontando al barista di quanto sia stata dura la "uscita" di oggi. Il bello è che ho già messo la freccia per sorpassare, ma il sistema se ne frega completamente. In autostrada riconosce l'indicatore di direzione e ti lascia fare la tua manovra, qui no. Qui continua imperterrito a proteggermi da un pericolo inesistente, come se avessi davanti Greg LeMond in fuga solitaria e non il ragionier Bianchi che va a ritirare la pensione.
L'antropologia urbana del ciclismo contemporaneo
Devo ammettere che questa faccenda dei ciclisti moderni mi lascia sempre perplesso. Non è che io sia contrario al ciclismo, anzi. Ma c'è qualcosa di profondamente irritante in questa trasformazione della pedalata domenicale in simulacro di competizione sportiva. Gente che si veste come se dovesse affrontare l'Alpe d'Huez, poi pedala per tre chilometri su strade pianeggianti che mia nonna percorreva in bicicletta da lavoro negli anni Cinquanta.
È come se avessimo perso la capacità di fare le cose semplicemente. Non basta più andare in bicicletta, bisogna sembrare ciclisti. Non basta più muoversi, bisogna performare. E così le nostre strade si riempiono di questi personaggi che occupano metà carreggiata con la sicurezza di chi ha speso duemila euro in attrezzatura, convinti che l'investimento li legittimi a comportarsi come se fossero in una tappa del Giro.
Il problema è che anche le macchine ci cascano. Il computer della mia auto vede questo oggetto in movimento, tutto bardato da competizione e pensa genuinamente di trovarsi davanti a un atleta lanciato a quaranta all'ora. Invece è sempre il solito Mario che va a comprare le sigarette, ma travestito da Pogačar in versione discount. Il risultato è che mi ritrovo bloccato dietro a velocità da passeggiata mentre i sensori mi impediscono di sorpassare con la scusa della sicurezza.
La frustrazione algoritmica e i suoi disagi
La cosa che mi irrita di più non è nemmeno il rallentamento in sé. È questa sensazione di essere ostaggio di un sistema che non riesce a distinguere tra una situazione realmente pericolosa e una pantomima sportiva. Ho investito migliaia di euro in una tecnologia che dovrebbe semplificarmi la vita e invece mi ritrovo prigioniero delle sue interpretazioni sbagliate.
Perché, diciamocelo chiaramente, questi ciclisti della domenica sono tutto tranne che pericolosi. Si muovono con la prevedibilità di un orologio svizzero, occupano sempre la stessa porzione di strada, mantengono velocità costanti che sfidano le leggi della fisica per quanto sono basse. Eppure il mio sistema ADAS li tratta come fossero variabili impazzite, elementi di rischio da gestire con la massima cautela.
E qui emerge tutta l'assurdità della situazione. Abbiamo creato intelligenze artificiali sofisticatissime che riescono a elaborare migliaia di dati al secondo, ma non sono capaci di capire che quello davanti a loro non è Lance Armstrong in fuga, è il pensionato del piano di sopra che ha deciso di sentirsi giovane per un paio d'ore.
Il teatrino quotidiano dell'inefficienza
Quello che mi colpisce è come questa situazione si ripeta ogni giorno con una costanza quasi rassicurante. Sempre gli stessi personaggi, sempre gli stessi percorsi, sempre la stessa recita. Il ciclista che si crede un professionista, l'auto che rallenta senza motivo, io che mi innervosisco dietro al volante mentre penso a tutti i modi più creativi per esprimere la mia frustrazione.
Poi racconto la storia ai colleghi, che annuiscono comprensivi perché anche loro vivono lo stesso dramma quotidiano. È diventato un rito collettivo, questa lamentela condivisa sui ciclisti che ci complicano la vita. Una specie di terapia di gruppo involontaria dove tutti si ritrovano a odiare la stessa categoria di persone per gli stessi identici motivi.
Forse il vero problema è che stiamo tutti fingendo di non vedere l'elefante nella stanza. Non sono i sistemi ADAS il problema, non è nemmeno la tecnologia. Il problema sono questi ciclisti che hanno trasformato un mezzo di trasporto in un costume di carnevale, occupando le strade con la stessa sicurezza di chi ha davvero diritto di farlo, ma senza averne le competenze né la velocità.
Intanto, ogni mattina, io e migliaia di altre persone continuiamo a vivere questo piccolo inferno quotidiano. Rallentiamo dietro a gente che potrebbe tranquillamente usare un'auto come tutti noi, mentre sogniamo il giorno in cui qualcuno avrà il coraggio di dire che forse, solo forse, non tutti hanno davvero bisogno di vestirsi da ciclista per andare a comprare il pane.
Ma tipo usare le ciclabili?